Evoluzione, soggettività, biocentrismo.

bioevolution

Spesso neghiamo la nostra animalità, spesso la diamo troppo come un fatto scontato e molte altre volte la misinterpretiamo confondendola con gli impulsi, la reattività e con quello che chiamiamo bestialità.

Questo lo facciamo anche con gli animali domestici, negando che anche essi sono animali come tutti gli altri, non più speciali degli altri, che anche essi, come noi, derivano da un processo evolutivo molto più lungo e potente di qualsiasi processo selettivo antropico. Un cane, un gatto, un cavallo, un umano, portano con se centinaia di milioni di anni di evoluzione, che non possono essere scrollati via così facilmente.

Il pelo di un cane ad esempio, anche se a pois, anche se arricciato, anche se rasissimo, entra in processo di muta che non è diverso dai primi processi di muta del pelo che risalgono a 160.000.000 di anni, come facilmente poteva accadere anche ad un Juramaia sinensis, uno dei primi mammiferi.

Quando affianco un cane nei suoi percorsi di valorizzazione dell’animalità, anche nella convivenza stretta con gli umani, non penso che sia il migliore amico dell’uomo, non penso se si o no ha competenze di collaborazione, non mi lascio suggestionare dalle fiabe sulla domesticazione, ribalto i rituali di catechesi cinofila, tengo conto ma non mi lascio influenzare dalla specie o dal tipo, non mi interessa se comunichiamo efficacemente, non cerco di capire quali nuove attività sportive poter fare insieme, ma guardo alla sua soggettività nel presente, nel quotidiano, nelle esperienze cognitive e socio-cognitive da poter sperimentare.

Una soggettività che proviene quindi anch’essa da un processo evolutivo lontanissimo nel tempo e che mi aiuta a guardare un animale attraverso una prospettiva diversa, facilitandolo nel preservare o recuperare se stesso e il suo essere animale. Un animale quindi che non appartiene divinamente agli animali umani e al loro impero antropocentrico e specista, che in fondo ha solo poche decina di migliaia di anni di esistenza, ma una soggettività animale che appartiene all’evoluzione biologica della vita sulla Terra, con il suo enorme bagaglio biocentrico di eredità che si porta dietro da un tempo immemorabile a molti, ma non a tutti, non immemorabile a me animale umano.

Etologi, complici dell’animalità? O dell’antropocentrismo?

animal scienceIl ruolo dell’etologia nelle industrie animali deve essere quello di riformarle, per uno sfruttamento etico, anche addestrativo, degli animali, ponendo centrale la beneficialità dell’umano (etica antropocentrica)? O di mettere sempre più in discussione l’esistenza stessa delle industrie dello sfruttamento animale, anche riferito allo sfruttamento addestrativo dell’animalità, per una beneficialità allargata che vada al di là della specie di appartenenza (etica animale)?

La questione non è di poco conto ed anzi è cruciale, perchè la scelta per la prima o per la seconda ipotesi, fa davvero la differenza dal punto di vista animale, perché l’etologia non deve essere considerata sempre qualcosa di positivo per gli animali, anzi, anche perchè rende più trasparente il contributo degli etologi, in quanto nella prima ipotesi, essi continuano a rendere se stessi servitori e complici dello sfruttamento animale e del suo perpetrarsi, anche se riformato umanamente ed eticamente, nella seconda diventano etologi attivisti in nome e per conto dell’animalità, per dare un contributo forte di riduzione dello schiavismo animale, in vista della sua abolizione.

Abbiamo bisogno quindi di un’etica animale avanzata che renda chiara ed inequivoca questa differenza e che possa favorire il valore intrinseco di ogni animale, non quindi finalizzato a rendere più etico lo sfruttamento e l’intrattenimento animale, ma che consideri gli elementi di soggettività, dignità, integrità, non da una prospettiva umanista con l’umano sempre e comunque centrale, come fino ora è stato fatto, ma attraverso un ragionamento non-umanista di comprensione dell’animalità, dell’etica animale ed anche dell’umanimalità.

 

 

Né comportamentisti né cognitivisti, cavalli cognitivi e basta.

topazio e falo

Sebbene la parola cognitivo richiami alla mente il cognitivismo, con quest’ultimo essa ha poco o nulla a che vedere. Quando si parla di cavalli cognitivi, ad esempio, il riferimento non è il cognitivismo ma le dimensioni di cognizione animale, in particolare quelle trattate dall’etologia cognitiva.

Anche se, attraverso un approccio superficiale alle cose e alle discipline di studio, il cognitivismo sembra distanziarsi dal comportamentismo (behaviorismo), nella realtà dei fatti non esiste una sostanziale soluzione di continuità, sia da un punto di vista storico, con il primo che prende origine dal secondo e con i primi cognitivisti che appartenevano ancora alla casta del comportamentisti, sia nell’approccio meccanicistico-robotico di chi lo esplora e di chi lo esercita, con una tendenza fortemente cartesiana sia dell’uno che dell’altro (sia parlando di comportamento che di mente), dove entrambe queste dimensioni appartengono alle due facce della stessa moneta, una moneta sempre e comunque di natura antropocentrica e specista, nei cui laboratori, entrambi a condizioni controllate, l’animalità veniva e viene ancora oggi vivisezionata e di fatto negata.

In quanto etologo cognitivo, quindi né comportamentista né cognitivista, quando parlo di cavalli cognitivi e di cognizione animale, non faccio riferimento a stimoli, rinforzi, condizionamenti, neanche in ottica cognitivista o di addestramento cognitivo-relazionale, non sono interessato se il cavallo, si o no, si riconosce allo specchio o se riconosce forme e colori, non mi interessa capire se il clicker o se le pressioni possono essere usato in modo cognitivo (anzi al limite sarebbe più giusto dire cognitivista), non sono interessato a cogliere il buono che c’è in ogni approccio e non mi presto ad essere inserviente etologo dei vari e variegati quartierini equestri, con il cavallo che viene deprivato delle sue domande al mondo e ridotto ad uno schiavo cibernetico.

Quando parlo di cavalli cognitivi intendo quindi dire che sono interessato ad esplorare i loro comportamenti, così come i loro stati mentali, spontanei, sia all’interno di una cornice cognitiva individuale che socio-cognitiva, senza alcun risvolto applicativo equestre, ma con lo scopo ben chiaro di garantire loro una qualità di vita a misura di cavallo, emacipandoli dalle addestrologie, liberandoli dall’industria equestre e progettando nuove immagini di coesistenza.

Concludo esortando a non considerare tutti questi aspetti, studi e discipline come mere etichette equivalenti, dove una vale l’altra, ma comprendere, con profondità e pensiero critico, quali di esse si orienta in direzione del punto di vista animale e quale si orienta in direzione dello sfruttamento animale. Perché le discipline di studio e ricerca hanno una storia che va compresa al di là dei contenuti, una storia fatta di battaglie, anche molto dure, confrontandosi in nome di una conoscenza spesso troppo-umana e poco autenticamente animale.

Perché ci si può anche accontentare nella vita, ma per dirla con Ligabue chi si accontenta gode, così così, e a godere così così, a causa della superficialità nel comprendere, in questo caso sono i cavalli e molte altre animalità, anche umane.

Ci vediamo da Mario, prima o poi.

 

Nella foto Topazio e Falò, cavalli cognitivi.

Equus for Equus: horses, ethics, ethology, cognition and well-being.

 

 

Learning Horses

 

What is Cognition?

Cognition is a faculty that processes information, applies knowledge and changes preferences. It is both how the world is perceived and the knowledge that is derived from that perception. Attention, memory, problem-solving and decision-making are all key elements within the cognitive processes.

Trying to understand and explain the mental abilities of animals often sparks discussion because there are several very different definitions of cognition that relate to how people, including scientists, look at the world. The anthropocentric view, for instance, places human intelligence and cognition at the top of a pyramid and tends to compare the abilities of other animals to human ones.

For example, the use of language and the solving of mathematical problems are easily recognizable cognitive processes in humans. It is, therefore, tempting to apply the same processes to horses: Teach them how to count, recognize numbers or the alphabet then use the results as evidence of a form of equine intelligence. However, a horse that is able to count has actually learned a trick. It gives a misleading picture of the true capacity and needs of the horse and belittles his essence, especially when it is achieved with food premiums that distract from the horse’s actual understanding of a context.

Learning the alphabet is not of interest to a horse. It is, however, gratifying to man to train a horse to perform such a task. What is in a horse’s interest is an understanding of his surroundings, spatial representations and social dynamics; he also needs to be able to solve problems and to perform pre-conflict (where one horse interrupts two others that are starting a conflict) and consolatory (consoling) behaviors. A horse doesn’t need a reward for these behaviors—his satisfaction is intrinsic.

Trying to prove intelligence by creating behavioral projections from the human world, or trying to compare capacities instead of understanding different cognitive abilities, confuses the meaning of animal cognition. It also colors our ability to see the value of a particular animal or individual.

Equine Cognition

In nature, a horse is a cognitive animal because life in the wild requires it. Equine cognition has been shaped by the evolutionary process, both by the environmental challenges and complex social dynamics. In fact, every species has its own particular cognitive abilities and skills, as does every individual. Bats and spiders, for example, have a developed spatial cognition that allows them to navigate through and hunt in their environment.

“We have long since left the realm where animals are viewed as simple, stimulus-bound responders, passive learners or robotic followers of conditioning regimes,” wrote Russell P. Balda, Irene M. Pepperberg, and Alan C. Kamil in their book, Animal Cognition in Nature (Academic Press, 1998).

Sadly, in today’s society, this concept doesn’t yet seem to be recognized for the equine species.

Think, for example, of a situation when a horse is taken to a new habitat. Many horses are expected to immediately adapt without having the opportunity to explore and get to know this new environment. Although the new place is full of information for the horse, we do not perceive these elements as learning opportunities. As a result, many horses live in a blurred world full of situations and interactions they just get used to seeing but don’t really understand.

Besides recognizing and accepting a horse’s need to explore a new environment, we must also understand he has his own information-acquisition process. We might not see any evidence of this process because one characteristic of cognitive learning is latency, which means that the immediate result of the learning process often cannot be seen. What was elaborated—worked out mentally—by the horse might be used in a future moment, if and when circumstances call for it. However, even if we do not see the result of the elaboration process, what we can do is create room for learning.

This is a problem for other animals, as well. Think of a cat going outside for the first time. Most cats will sit on the doorstep first, at the border between their secure environment and the unknown, taking time to observe everything and form an idea of the situation. The human companion, however, is often too impatient because he wants to see some action and a result. So he interrupts that process and tries to convince the cat to step out. We need to learn to recognize and respect these learning moments instead.

Cognition and Well-Being

Although the understanding of animal cognition has become an important topic and a crucial element for the horse’s quality of life, relatively little is known about it. We must, therefore, not just focus on how to train a horse but also understand his needs and preserve his socio-cognitive abilities.

Welfare, well-being and cognition are closely linked. Ignoring cognition means ignoring a horse’s profound and innate need to understand what is happening around him, understand his environment, and work out and express his own experience.

Ignoring it will cause tension in the horse, mentally, emotionally and physically. Yet, the more we study horse cognition from a human point of view, the less we know about his real emotional, social, and mental perception and understanding. We need to study horse cognition in a new way.

What Is a Cognitive Environment?

Horses who live in a social context and an enriched natural environment continuously process information while foraging, walking together, standing still together and observing herdmates.

As in other species, horses living in a family context have their own cultural transmission. Knowing each other, experiencing moments together and having the freedom to express themselves gives horses from a family—or family-like group—a detailed reading of each other that enables them to pick up on each other’s intentions by observation and activity. Refined social interactions such as pre-conflict behavior, affiliative behavior (behavior that promotes group cohesion) and shared exploring are then also developed. They take social dynamics into account and, in doing so, safeguard a cognitive context.

Horses can share experiences, learn together and from each other. A young horse can learn by observing a mature, experienced horse, but a mature horse can also learn from a young horse. It is called social learning in a socio-cognitive context. In this context, living together means living experiences together, learning nuanced expressions in a kind of dialogue in which every single relationship is unique and in continuous development. Obviously, the richness of these experiences depends on the individual horses involved. Similarly, if the environment becomes too dynamic, too competitive or if there are no elements that support the shared experiences, the conditions for socio-cognitive learning decrease.

Having shared experiences is crucial in creating a cognitive environment and offers deeper understanding of the context and of each other. However, it is also important to understand that putting a number of horses together doesn’t automatically mean that a safe social environment is created. Most horses in our society have no family ties or family-like groups in their living habitat and do not grow up together.

Preserving Socio-Cognitive Abilities

Living together in the same field is not the same as having shared experiences in a socio-cognitive context, especially when a herd changes continuously. In many situations, horses are busy defending themselves rather than trying to understand each other.

Humans can play an important role by creating the opportunities for horses to share social experiences with each other, such as facilitating an exploration in the field. Instead, horses are often subjected to fast dynamics: Many people go into a field to directly take a horse out, not to spend time in the field and notice from nearby what kind of environment and dynamics their equine companion is living in.

Preserving cognitive abilities means ensuring a horse lives in a context where there is respect for his specific needs and where he can express himself and understand his environment. It is also making sure that he isn’t continuously exposed to pressure and expectations in his interactions with humans. Nowadays, however, most horses are placed in stressful situations from the moment they are born. Many common features of modern equine life, including premature weaning of foals, social isolation, living in non-familiar and unstable herds, behavioristic training and lifestyles shaped by performance or competition goals all strongly affect the cognitive structures of horses and their welfare.

As social cognition is strongly related to the perception of each horse, and depends on all the previously mentioned elements, we need to learn to see a horse in this complex situation. We need to adopt a more holistic approach in understanding a relationship dynamic that cannot be captured by or attained with a method. That would be like finding a method for a happy human-human relationship.

Although many may have actually tried to capture it in a formula, in the end, we still have to experience every single relationship. And that is the beauty of it! Every sound relationship is a unique interaction in continuous evolution. With every new experience, everyone grows and acquires new instruments with which to see and perceive life.

A relationship that lasts and is based on cognition cannot be put in a manual as if it were a mathematical equation. It requires an awareness of all the various elements within the relationship dynamic.

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Adapted by permission from Equus Lost? How We Misunderstand the Nature of the Horse-Human Relationship—Plus Brave New Ideas for the Future, published in February 2017 by Trafalgar Square Books. Available from http://www.EquineNetworkStore.com; 866-655-2698.

About the authors: Francesco De Giorgio is a biologist, cognitive ethologist, zooanthropologist, lecturer and writer in favor of animals and animality. José De Giorgio-Schoorl is a speaker, teacher in the horse-human relationship (zooanthropology) and horse and people facilitator.

In the photo Pioggia and Onda, two of the horses that live with Francesco and José at Learning Animals, in Italy.

This article was originally published in the United States the March 2016 issue, Volume #474 of EQUUS magazine

Educare alla prosocialità: vantaggio o danno per l’animalità?

In anni recenti sono aumentati gli sforzi per integrare gli animali nelle caotiche società occidentali, al fine di valorizzarne il contributo che essi possono dare allo sviluppo delle culture umane, cercando di ridurre i fenomeni di zoointolleranza, per una maggiore accettazione degli animali nella convivenza con noi animali umani, per assumerli quali impiegati adatti a rivestire il ruolo di terapeuti per umani e per molti altri coinvolgimenti. A questo proposito si parla sempre più spesso di educare gli animali alla prosocialità, in modo da modellarli e quindi renderli più adatti a questi scopi. Tutto questo appare molto nobile, ma cosa ci guadagnano gli animali, anche umani? E cosa perdono?

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Per parlare di questo dobbiamo fare qualche incursione su alcuni ragionamenti alla base di questa propaganda alla prosocialità degli animali domestici.

Il primo, ideologico, è quello che porta a distinguere gli animali domestici dai selvatici, con i primi trattati come delle entità aliene al mondo naturale o come semi-divinità originatesi dalle costole dell’uomo, che nel vivere in contesti antropici o di collaborazione con gli umani, trovano il senso pieno della loro esistenza. Il secondo, normativo, che per poter essere integrati bisogna essere ben educati alle norme di quella società, smussando le proprie identità e istanze, in favore di premi più grandi. Il terzo, antropocentrico, che attraverso animali educati alla prosocialità si evitano frizioni tra gli umani, si migliora il quieto vivere umano ed anzi, gli animali così educati, possono portare un contributo importante al benessere umano (vedi Pet-Therapy). Il quarto, salvifico, che in questo modo si riduce il rischio di portare ad eutanasia gli animali che non rientrano spontaneamente nei limiti di accettabilità imposti dalle società occidentali.

Questi sembrano aspetti vantaggiosi per gli animali, grazie ai quali guadagnano la possibilità di essere riconosciuti come degni membri della civile società, bisogna tuttavia sottolineare che questi ragionamenti, queste tendenze, queste ideologie ed anche queste credenze, derivano proprio da stili distorti di convivenza con gli animali, anche umani, sviluppati soprattutto nei paesi occidentali, verso i quali anche paesi come l’Italia, che possono e devono portare un contributo diverso, con diverse idee di coesistenza, rischiano di appiattirsi, nei fatti negando il contributo che l’animalità può dare se spontaneamente lo vuole. Il buco nero del beneducatismo, così radicato nelle nazioni presunte più avanzate, rischia di divorare e danneggiare grandi parti di animalità, anche umana, che deve cedere la sua autentica dignità, la sua originale integrità, il suo vero benessere, anche in termini di socialità, pur di essere accettati, tollerati e civilmente usati.

Una politica animale che invece voglia valorizzare, tutelare, tenere conto e promuovere una considerazione degli animali attraverso il loro punto di vista, non quindi in quanto passivi membri della società, bravi, educati, ben disciplinati e ben impiegati, ma in quanto titolari di se stessi, delle proprie vie di dialogo con il mondo, delle proprie identità, della propria cultura, non può che passare attraverso il superamento delle vie ideologiche, normative, antropocentriche e salvifiche, tracciando nuovi e avventurosi percorsi non-umanistici, dove l’addestramento e l’educazione a diventare prosociali, lasci spazio al preservare o recuperare quel patrimonio di dinamiche soggettive, cognitive e sociali autentiche, esse sì, di grande valore per una coesistenza equa tra animali umani e non.