Con addestromorfismo si intende la tendenza a pensare per ossessioni di controllo, agendo di conseguenza attraverso compulsioni addestrative, nelle nostre interazioni con l’animalità.
Questi pensieri ossessivi e queste azioni compulsive, sono diventati un emergente problema moderno per l’animalità, per come la immaginiamo, per come la pensiamo, per come ci dialoghiamo e per come ci conviviamo.
L’addestromorfismo infatti sta dilagando con sempre maggiore invasività, soprattutto in anni recenti, portando da moderate a severe conseguenze negative per la qualità di vita degli animali con cui, noi animali umani, viviamo, innalzando importanti questioni di etica animale, anche laddove le conseguenze possono essere lievi o invisibili.
Sembra ormai impossibile che si possa avere una tranquilla convivenza con l’animalità, senza per questo sottoporla alle più svariate tecniche di addestramento, dalle più coercitive alle più gentili, dalle più etologiche alle più etiche, dalle più cognitive alle più zooantropologiche e via dicendo. Dietro l’impossibilità a vivere interazioni con l’animalità, anche umana, che siano libere da compulsioni addestrative, ci sono tante giustificazioni di natura troppa-umana, quasi tutte davvero risibili, che vengono espresse con innumerevoli affermazioni del tipo:
“Se vogliamo convivere con un animale dobbiamo addestrarlo.”
“Se non lo addestriamo, un animale prenderà il sopravvento.”
“Dobbiamo addestrare gli animali per procedere facilmente con le pratiche quotidiane e le emergenze.”
“Un animale va addestrato per la nostra sicurezza.”
“L’addestramento rende l’animale più intelligente e quindi più sicuro.”
“Un animale addestrato è un animale che vive meglio.”
In particolare in riferimento all’ultima frase, la questione è in realtà opposta e potrebbe essere esplicitata con la frase: “un animale addestrato non vive bene, ma sembra che viva meglio di un animale non addestrato”. Ed è infatti in quel “sembra” che si nascondono i danni più subdoli per gli animali, danni connessi anche a tutta quella psicopatologia denominata come impotenza appresa, che rappresenta la perdità della capacità di fare proprie scelte, di avere propri pensieri, di essere proprietario del proprio apprendimento e con essa la perdita anche di benessere fisico, perchè un animale privato di propri pensieri emancipati e soggettivi, sta male anche fisicamente visto che se la sua mente soffre anche il suo corpo soffre, essenso l’una inscindibile dall’altro.
Qualsiasi attività di interazione con l’animalità, che rientri ovviamente all’interno di una cornice di etica animale, quindi libera da performativismi agonistici e non, può essere svolta tenendo conto del punto di vista animale, un punto di vista libero da addestramenti e per questo più chiaro, forte, presente e attivo nel momento d’apprendimento, di cui lui e solo lui deve sentirsi proprietario. Un cavallo che diventa proprietario di una cavezza, un cane che diventa proprietario della sua pettorina, un animale che diventa proprietario di una delle tante attività di coesistenza quotidiane con gli animali umani, non ha nulla a che vedere con un animale addestrato e che quindi le subisce passivamente, anche se sembra molto attivo nell’interazione, sembra.
Tra l’altro questa tendenza addestrativa moderna così diffusa, nasconde molte lacune sul significato d’apprendimento, sui paradigmi che ad esso riferiscono, sui diversi modelli di interpretazione e applicazione.
La cosa che meraviglia è che anche in rifugi e santuari dedicati al recupero degli animali, dove l’attenzione al mondo di percezione dell’animalità dovrebbe essere massima, il fantasma specista dell’addestromorfismo appare in molte delle attività quotidiane di gestione. Così dietro un richiamo emotivo connesso alla necessità di addestrarli per un efficace salvataggio animale, si nasconde paradossalmente un pericolo, una messa a rischio dei liberi pensieri dell’animalità e con essa un rischio per il benessere animale, un animale che spesso non si vede, che si sceglie di non vedere o che si addestra per non vederlo.
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