Un fatto scientificamente provato, non lo rende un fatto vero. Questa affermazione assume una maggiore significatività se detta da chi, come me, è cresciuto a pane e scienza e quindi ben conosce le materie del contendere, in particolare l’etologia, così come le dinamiche antropologiche che impregnano gli ambiti di ricerca.
Ricordo che in Spagna, nel 2014, un mio collega belga presentò, ad una conferenza internazionale di etologia applicata, uno studio sulla fallacia dell’evidenza scientifica e dell’oggettività statistica, causata dalla soggettività di chi andava ad interpretare il dato, traendo conclusioni basate su un proprio panorama interpretativo. Molti nel pubblico restarono sorpresi e stupefatti dal suo discorso, io no, consapevole del fatto che, anche se le analisi statistiche si sono perfezionate negli ultimi decenni, tutto resta ancora nelle mani del fattore umano e delle sue variabili individuali, sociali e culturali. In particolare se parliamo di discipline investigative relative alle scienze animali, quindi popolate da innumerevoli soggettività, questo assunto diventa cruciale da comprendere, soprattutto nel momento applicativo, nelle pratiche di relazione, nei momenti di criticità e nel supporto di facilitazione all’animalità.
Quindi l’evidenza scientifica non solo messa in ginocchio dalle infinite variabili connesse alle soggettività animali osservate, ma anche messa in ginocchio dalle soggettività che osservano un determinato fenomeno.
Quando per scopi più istituzionali svolgo la revisione etica di studi di etologia applicata, io non mi soffermo mai solo su materiali e metodi, ma vado ad analizzare anche il substrato culturale dei ricercatori coinvolti, sia legato alle ipotesi di partenza che alle conclusioni di quella determinata ricerca. Questo mi permette di fare una mappatura cognitivo-valoriale che aiuta a comprendere la provenienza di alcune loro convinzioni, che possono avere un significativo impatto etico sull’interpretazione dei dati riferiti all’animalità, controbbattendole con cognizione di causa. Tra l’altro, gran parte delle ricerche che si porta avanti nell’ambito delle scienze animali, ma non solo, viene svolto da innumerevoli studenti, sfruttati anche loro, insieme alle animalità, dall’industria delle pubblicazioni scientifiche, che non vengono affiancati ad assumere una prospettiva critica ed etica sostanziale nei confronti dello sfruttamento e dell’oppressione animale, valorizzando una propria sensibilità innata, non solo attraverso il rispetto di regolette scientifiche ed etiche spesso non al passo con i tempi, ma vengono sottomessi alle logiche e alle ambizioni di competizione dei loro supervisori accademici, in una gara a chi ha maggiori evidenze scientifiche e migliori statistiche da mostrare in articoli e conferenze.
Oltre a questo, le scienze animali del futuro saranno sempre più messe sotto sfida, anche da parte di una crescente opinione pubblica sensibile alla tutela della dignità e integrità delle soggettività animali e sul come tenerne conto, non per riformare la nostra coesistenza con loro e rendere il loro sfruttamento animale più etico e più umano, quindi più accettabile e giustificabile, ma per ridurlo drasticamente in direzione di un suo auspicabile avvicinamento all’abolizione.
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